La solitudine del MANAGER

Gisella Vonesch

Data

dic 30, 2014

“È strano essere conosciuti universalmente eppure sentirsi così soli”

Questo paradosso definito da Albert Einstein è il punto di partenza per una riflessione che si connota all’interno del mondo lavorativo aziendale e che ha come protagonisti i manager, soprattutto quelli di alto livello. 

È facile notare come in un contesto sempre più complesso, caratterizzato dalla gestione delle continue emergenze, dalla sempre meno facile pianificazione, da un contesto liquido che ormai connota la nostra società contemporanea (per usare una espressione di Zygmunt Bauman) le figure di vertice, nonostante potere, responsabilità, visibilità, prestigio, si sentano sempre più sole. Si tratta di un senso di solitudine che emerge palpabile conversando con loro, riuscendo a filtrare dentro quella corazza in apparenza robusta, ma spesso sottile, che avvolge il loro modo di porgersi e di agire.

Questo tipo di solitudine nasce spesso dalla difficoltà di poter instaurare un confronto sincero ed in grado di generare valore con il resto dell’organizzazione. I diretti superiori dei manager in questione spesso delegano perché oberati da situazioni complesse, anche di natura strategica, senza poter, loro malgrado, fornire le informazioni necessarie per lo svolgimento delle attività. È difficile dialogare con costoro e spesso il ruolo ricoperto non “permette” di chiedere dettagli maggiormente delineati. A loro volta i suddetti manager, con un processo top down delegano quanto possibile ai propri collaboratori, con un processo comunicativo che non sempre permette un buon fluire delle informazioni (loro malgrado).

Ecco dunque nascere situazioni di conflitto, dove ciascuno rimane all’interno del proprio nucleo attivando un processo comunicativo degenerativo. La stessa sorte tocca anche i top aziendali, che devono rendere conto del proprio operato ad un Consiglio di Amministrazione, ai Soci, agli Azionisti. Non è permesso sbagliare in un mondo sempre di corsa e dove gli obiettivi di ieri sono spesso diversi da quelli di domani. 

I manager (di alto livello, ma non solo) non ricevono feedback da nessuno: non possono chiederlo (e poi a chi), non possono riceverlo spontaneamente (nessuno oserebbe tanto!). Ed ecco che rimangono da soli nelle loro scelte complesse e senza la possibilità di confronto con altri.
E se non esiste confronto sulle tematiche lavorative, ancor meno questo si attua sulla sfera personale, all’interno della quale possono nascere tensioni che alimentano stress, stanchezza e limitata energia. 

A livello relazionale si generano pertanto situazioni non risolte che, per mancanza di tempo, per incomunicabilità, conflitto, timore di mostrarsi vulnerabile, tensione, non vengono affrontate creando all’interno della sfera individuale e nell’organizzazione piccole bombe pronte ad esplodere. 

Sempre più spesso, consapevoli della necessità di risolvere situazioni in bilico, i manager intraprendono un percorso di coaching. In un setting di assoluta riservatezza, nel rispetto di valori etici e professionali, un coach professionista diventa per il manager un partner affidabile con il quale condividere e confrontarsi. Non perché il coach possa dare delle risposte, o possa indicare la strada da seguire, o perché individui ciò che va eliminato, aggiunto o cambiato. Un coach efficace ascolta, dà consapevolezza al suo coachee delle qualità autentiche in lui presenti, e lavora perché queste possano essere ricollocate in uno spazio adeguato che generi una diversa visione delle cose e possa far emergere un diverso allineamento dei nuclei esplorati con conseguente miglioramento di performance a livello organizzativo e maggior benessere personale.

Il coach lascia spazio alla ricerca di nuove libertà, autorizza il suo coachee ad avere bisogni e ad esprimerli in funzione di un naturale sviluppo delle sue qualità, che potrà mettere in modo adeguato, a disposizione di sè stesso e dell’intera organizzazione. 

* Gisella Vonesch è Coach Professionista e HR Consultant
gisella.vonesch@fastwebnet.it